Mediazione familiare obbligatoria in Italia col ddl Pillon: un’antitesi in termini
Bella ‘sta cosa della mediazione familiare.
E’ una novità assoluta che in Italia si pratica solo da trent’anni. E con discreto successo.
In Paesi che mediamente non sono più civili di noi, anzi, ma per certi particolari, eccome, vedi USA – dove è nata – e Francia in testa a tutte, ma non solo, l’utilità di questa pratica non è stata mai, ma proprio mai messa in discussione.
Si è capito molto rapidamente che se due si separano ed è il giudice a decidere cosa spetta all’uno e all’altro, dopo vari litigarelli di avvocati che, nove su dieci, alimentano il conflitto apposta per spolpare le parti ulteriormente – coppie che magari di loro si sarebbero separate in dieci minuti e tranquillamente, finiscono per scannarsi per dieci anni in aula – dopo funziona molto meno rispetto al caso in cui i due, aiutati a ragionare e a comporre le loro beghe in un ambiente sterile, prendano le loro decisioni, si accordino e solo in seguito si rechino da avvocati e giudici, per ratificare le decisioni prese a norma di legge.
Tipo: moltissimi più mariti che pagano gli alimenti. Moltissimi meno rapimenti. Moltissimi omicidi in meno. Moltissimi poveri in meno. Moltissimi figli in meno affidati ai servizi sociali. Tutte sciocchezze, per carità, non vale neppure la pena di parlarne, mi rendo conto.
In Italia, fin dal suo ingresso in campo – 1987, lo dicevo che era una novità assoluta – la mediazione familiare ha cominciato a sostenere un ruolo difficilissimo e delicato, che sfociava però in successi notevoli sul piano sociale. Parte da Milano, approda a Genova, poi si allarga a tutta l’Emilia Romagna e lì si radica.
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_ Nodi problematici
Naturalmente, non va bene a tutti. Primissimi a lagnarsi, gli avvocati, che riescono a fare lobby e a tenere inchiodata per sempre – ci sono, sappiatelo, una mezza dozzina di disegni di legge in materia bloccati lì da decenni al riguardo – la possibilità che la mediazione non sia una cosa una tantum e proprio se in extrema ratio, ma una parte indispensabile del processo di separazione. L’obbligatorietà, non è mai partita. In Francia, per dire, è attività complementare a quella del giudice.
Hanno fatto fronte comune, in special modo, tre categorie, tutte e tre forti di Albi da difendere: avvocati, psicologi ed assistenti sociali. Ai quali sono stati rivolti per molto tempo i corsi per diventare mediatore, così come inteso in Italia – o meglio, dopo il passaggio attraverso le maglie lobbistiche. Di fatto, nel momento in cui si è capito che non sarebbe diventato obbligatorio, a nessuno è più fregato niente, mentre prima era un business notevole, quello dei corsi.
Sembra di dire una cosa ovvia, ma nel nostro paesucolo non è così: avvocati, psicologi, assistenti sociali, non vanno bene per fare i mediatori. Se fanno i mediatori, devono fare solo i mediatori. Possono avere preso la laurea umanistica che preferiscono, anzi: le tre di cui sopra, assieme a Sociologia, la grande esclusa da tutto, sono ideali. Però o fai un mestiere o ne fai un altro. Perché la mediazione presuppone una forma mentis mediativa; non diagnostica, non supportiva, non competitiva. Negoziale. Analitica. Super partes. Non giudicante.
Invece, da noi scopri che l’avvocato di parte nella causa ti fa anche la mediazione, che l’assistente sociale o lo psicologo ti fanno le CTU e pure, per lo stesso caso, pure le mediazioni. Capite che dovremmo darci un taglio. Ma un taglio serio, eh.
E questo solo per quanto riguarda la separazione; un campo ghiotto, che tutti vogliono tenere ghiotto, e i mediatori rompono i coglioni a tutti, snellendo il processo, rendendolo poco remunerativo, poco problematico.
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Esempi e alternative
Tipo: vai dall’avvocato; rimbalzi, finisci in giudiziale, ne esci come ne esci. Altro scenario: vai dall’avvocato, ti invia in mediazione, torni con accordi di massima già pronti dopo tre, quattro ore di lavoro condiviso, due passaggi legali, firmi le carte, c’è vita dopo la coppia. Altro che aggravio dei costi per il cliente. Stronzate allucinanti, è l’unico termine che mi viene in mente.
Per cui, questa cosa di Pillon mi potrebbe pure piacere, pure tornare utile.Non ho mica preso il Master in mediazione per pulirmici il didietro. Il fatto che possa diventare una fonte di reddito una cosa che non tutti sanno fare – ma io sì, tanti altri sì – perché è una cosa che richiede una preparazione specifica e una applicazione attenta, mi farebbe molto gioco.
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Se non fosse per alcuni particolari interessanti: ritorno indietro nel tempo
Primo: il conflitto di interessi di Pillon non nasce dal fatto che è un mediatore, ma dal momento che è un avvocato. Deontologicamente possibile, all’anno zero italiano, il che è una cosa atroce, dal punto di vista procedurale.
Secondo: il DDL Pillon, oltre all’evidente volontà di ricacciare le famiglie nell’Ottocento più cupo e ignorante e cattolicamente becero, è redatto senza tenere conto del fatto che esiste la realtà e che le persone vivono in essa.
Terzo, e più importante di tutti: il DDL Pillon stabilisce una serie di clausole necessarie, obbligatorie, invalicabili e univoche cui i separandi devono sottostare e zitti. In sostanza, elimina completamente il senso di una qualsivoglia mediazione, che deve invece essere realizzata dai separandi secondo le necessità che devono fare emergere accordandosi. Qui non esiste accordo: c’è un obbligo, e muti. Su tutta la linea.
A queste condizioni, diventerebbe una plateale farsa che non solo non risolverebbe niente, ma sarebbe completamente nelle mani delle stesse lobby di cui sopra: avvocatucoli, psicologucoli, assistentucoli che diversamente dai loro omologhi realmente professionali non vedono l’ora, siccome non si batte un chiodo, di poter tirare su soldi facili facendo le stesse quattro banalità che facevano prima, però obbligatorie.
Bravi, eh. Però non è mediazione e io non ci sto.
Che volete mai, io sono proprio un originale.
A me di fare figure di m…a sciacallando sui problemi degli altri e rovinando cose che dovevo aggiustare non va per niente.
posted by Carlo Vanni – coach e mediatore familiare
A me sembra un disegno di legge che tutela i più forti. Molte donne potrebbero trovarsi in serie difficoltà. Lo trovo ingiusto.
Non soltanto è iniqua, ma è anche calata nel vuoto. Dal punto di vista del concetto di mediazione è quanto di più errato potessero ideare; da quello delle tutele che sostiene di voler realizzare, peggio ancora, perché non si confronta con le realtà delle persone. Non cerca un vero equilibrio: ne impone uno a casaccio che non corrisponde a nessuna delle esigenze reali delle famiglie in separazione.
Purtroppo aggrava la situazione anzichè migliorarla: se per dare spazio alla figura del mediatore occorre allungare i tempi di una separazione, meglio sarebbe allora definire i termini della controversia prevedendo un istituto di conciliazione e favorendo una nuova cultura, quella umanistica appunto delle mediazione familiare e di comunità.